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domenica, luglio 23, 2006

Memoria

Negli ultimi dieci anni di vita, mia madre perse a poco a poco la memoria. Quando andavo a trovarla, a Saragozza, dove abitava con i miei fratelli, ci capitava di darle una rivista che lei sfogliava minuziosamente dalla prima all'ultima pagina. Dopo di che gliela riprendevamo per dargliene un'altra, che in realtà era la stessa. Ricominciava a sfogliarla con la medesima cura.
Arrivò a non riconoscere più i figli, a non sapere più chi eravamo, chi era. Entravo, la baciavo, passavo un po' di tempo con lei - la salute fisica restava intatta, era anzi piuttosto agile per la sua età - poi uscivo, rientravo subito dopo, e mi accoglieva con lo stesso sorriso, mi pregava di accomodarmi, come se mi vedesse per la prima volta. Del resto, non ricordava neanche più il nome.
In collegio, a Saragozza, ero in grado di recitare a memoria l'elenco dei re visigoti spagnoli, superfici e popolazioni di tutti gli stati europei, e molte altre futilità. Questo genere di memoria meccanica è generalmente disprezzato nei collegi. In Spagna questo tipo di allievo si chiama memorion. Ed io, memorion com'ero, ero bersagliato da sarcasmi per quelle esibizioni mediocri.
A mano a mano, col passar degli anni, questa memoria un tempo così disdegnata ci diventa preziosa nella vita. I ricordi si accumulano a nostra insaputa e un giorno, all'improvviso, cerchiamo inutilmente il nome di un amico, di un parente. Lo abbiamo dimenticato. Può capitarci di diventare furiosi, alla vana ricerca di una parola che conoscevamo, che abbiamo sulla punta della lingua, e che si ostina a non ritornare.
Con questa dimenticanza, e le altre che non tarderanno a farsi avanti, incominciamo a capire e ad ammettere l'importanza della memoria. L'amnesia - di cui, per quanto mi riguarda, ho incominciato a soffrire verso i settant'anni - inizia con i nomi propri e i ricordi più vicini: dove ho messo l'accendino, cinque minuti fa? Cosa volevo dire avventurandomi in questa frase? È l'amnesia anterograda, cui segue quella antero-retrograda che si riferisce agli avvenimenti degli ultimi mesi, degli ultimi anni: come si chiamava il mio albergo, quando sono andato a Madrid, nel maggio 1980? E il titolo di quel libro che mi ha tanto interessato, sei mesi fa? Non ricordo più, cerco a lungo, invano. E finalmente arriva l'amnesia retrograda che può cancellare una vita intera, com'è accaduto a mia madre.
Quanto a me, non ho ancora subito i colpi di questa terza forma di amnesia. Del mio passato remoto, dell'infanzia, della giovinezza, serbo ancora ricordi molteplici e precisi, così come una gran quantità di volti e di nomi. Se mi capita di dimenticarne uno, non mi preoccupo troppo. So che tornerà improvvisamente, per uno dei molti capricci dell'incoscio, che lavora instancabile nell'ombra.
In compenso mi capita di avvertire una grande preoccupazione, angoscia direi, quando non riesco a ricordare un avvenimento recente, che ho vissuto, oppure il nome di una persona incontrata negli ultimi mesi, e perfino di una cosa. D'un tratto la mia personalità si sgretola, si sfascia. Non mi riesce di pensare ad altro, eppure tutti i miei sforzi, le mie ire sono inutili. Che sia l'inizio di una scomparsa totale? Sensazione tremenda, dover usare una metafora per dire "tavolo". E oltre ogni limite, l'angoscia peggiore: esser vivo, ma non riconoscere più, non sapere chi sei.
Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un'intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un'intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l'azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.
Ho immaginato spesso d'inserire in un film una scena con un uomo che cerchi di raccontare una storia a un amico. Ma dimentica una parola su quattro, parole generalmente molto semplici, come "automobile", "via", "poliziotto".Farfuglia, esita, gesticola, cerca degli equivalenti patetici, fino a quando l'amico irritatissimo lo schiaffeggia e se ne va. Mi capita anche, per difendermi ridendo dalle crisi di panico, di raccontare l'aneddoto del tizio che va da uno psichiatra e lamenta disturbi della memoria, lacune. Lo psichiatra gli fa un paio di domande formali, poi gli dice:
"E allora? Queste lacune?".
"Quali lacune?" risponde l'altro.
Indispensabile e onnipotente, la memoria è anche fragile e minacciata. Minacciata non solo dalla dimenticanza, sua vecchia nemica, ma anche dai ricordi fasulli che la sommergono, e l'invadono ogni giorno di più. Un esempio: ho raccontato per anni agli amici (e in questo libro lo cito) il matrimonio di Paul Nizam, brillante intellettuale marxista degli anni Trenta. Rivedevo chiaramente la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, il pubblico di cui facevo parte, l'altare, il prete, Jean-Paul Sartre testimone dello sposo. Un giorno, l'anno scorso, mi dissi improvvisamente: ma è impossibile! Paul Nizam, marxista convinto, e sua moglie che apparteneva a una famiglia di agnostici, non si sarebbero mai sposati in chiesa! Una cosa assolutamente impensabile. Avevo quindi trasformato un ricordo? Si trattava di un ricordo inventato? Di una confessione? Ho rivestito di un ambiente familiare, chiesastico una scena soltanto orecchiata? Non lo so, non sono mai riuscito capire.
La memoria è perennemente invasa dall'immaginazione e dalle fantasticherie, e poiché esiste una tentazione di credere nella realtà dell'immaginario, finiamo col fare delle nostre menzogne verità. Il che del resto ha un'importanza molto relativa, dato che sono anch'esse cose vissute, e personali.
In questo libro semibiografico, nel quale mi capiterà di perdermi come in un romanzo picaresco, di abbandonarmi al fascino irresistibile del racconto inaspettato, forse, malgrado la mia vigilanza, continuerà a sussistere qualche ricordo fasullo. Ma la cosa ha veramente poca importanza, ripeto. Sono fatto dei miei errori e dei miei dubbi, come delle mie certezze. Non essendo uno storico, non mi sono aiutato con appunti né libri e il ritratto proposto è comunque il mio, con tutte le mie affermazioni, esitazioni, lacune, con le mie verità e le mie bugie, in una parola: la mia memoria.


(Tratto dal libro "Dei miei sospiri estremi", di Luis Bunuel, edizione SE, Milano, 1991, traduzione di Dianela Selvatico Estense)

sabato, giugno 24, 2006

Tu sei tutto, Sylvia! Ma lo sai che sei tutto? You are everything, everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l'amante, l'amica, l'angelo, il diavolo, la terra, la casa... (Marcello Mastroianni ad Anita Ekberg in "La dolce vita", 1960)

domenica, giugno 18, 2006

Ballata delle donne

BALLATA DELLE DONNE

quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:

quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:

quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:

perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente

femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano

Edoardo Sanguineti

sabato, giugno 17, 2006

Te lo faccio vedere chi sono io

TE LO FACCIO VEDERE CHI SONO IO (Ciampi - Marchetti)

Una regina come te in questa casa? ma che succede?
ma siamo tutti pazzi? ma io adesso sai che cosa faccio?
che ore sono? le undici? io fra - guarda - fra cinque ore
sono qua e c'hai una casa con quattordici stanze,
te lo faccio vedere chi sono io. E che sono quei cenci
che hai addosso?! ma che è, ma fammi capire...
ma senti... ma io... ma come! Tu sei... sei la mia...
e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso!
Ma io adesso esco, sai che cosa faccio? ma io ti porto...
una pelliccia... di leone... con l'innesto di una tigre.
Te lo faccio vedere chi sono io.

Senti, intanto però c'è un problema: siccome devo uscire,
mi puoi dare mille lire per il tassì in modo che arrivo
più in fretta a risolvere questo problema volgare che
abbiamo? Te lo faccio vedere chi sono io, lascia fare
a me, lascia fare a me, lascia fare a me perché... ti
devi fidare.

Ma che cosa ti avevo detto, una casa? ma io sai che cosa
faccio? ma io ti compro un sottomarino. Perché? se qui
davanti a casa nostra quelli c'hanno la barca e rompono
le scatole, io ti compro un sottomarino! così, sai, li fai
ridere tutti, questi, hai capito? Intanto facciamo una cosa,
che fra cinque ore sono qua: tu metti la pentola sul fuoco,
ci facciamo un bel piatto di spaghetti al burro mentre
aspettiamo il trasloco, poi ci ficchiamo a letto e te lo faccio
vedere chi sono io: ti sganghero! Te lo faccio vedere
chi sono io! Te lo faccio vedere chi sono io,
sono un uomo asociale ma sono un uomo che ti...
Io non ti compro il sottomarino: ti compro un transatlantico.
Basta che tu non scappi, stai attenta che... se scappi
col transatlantico ti affogo nel... nell'Oceano Pacifico.
Dai, dai, coricati, vai che ti sganghero,
te lo faccio vedere chi sono io!

giovedì, maggio 04, 2006

domenica, aprile 09, 2006


Ascolta

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.



(Eugenio Montale, Le occasioni)
Gli uomini che si voltano

Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o da fondali d'alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente
e non mi chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.

(Eugenio Montale)

venerdì, gennaio 13, 2006

Prima dell'inizio


Succede talvolta quanto sto per scrivere:
divento triste
pensando alle foche uccise dai bracconieri,
e divento triste
vedendo un uomo mangiare da solo
con lo sguardo in basso,
e divento triste
quando immagino che un giorno la foresta Amazzonica
sarà solo un deserto di ricordi,
e divento triste quando perdo tempo,
e divento triste
quando mi ricordo che l'infanzia è un negativo
che non si può sviluppare,
e divento triste guardando il mare in tempesta,
e divento triste
sapendo che in ogni uomo c'è tanto così per cambiare le cose
ma non viene fuori,
e divento triste
quando mi convinco che per brillare
bisogna essere per forza una stella.
Ma molto
e molto
e molto felice divento
quando, guardandomi, penso che ci sono.



(Emiliano Pasqualin, "Era un malinconico modo di vivere",
Libreria Editrice Sottomondo)
VALORE

di Erri De Luca

Da Opera sull'acqua e altre poesie, Einaudi, 2002



Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.

Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.

Considero valore il vino finche' dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e' risparmiato, due vecchi che si amano.

Considero valore quello che domani non varra' piu' niente e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.

Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che .

Considero valore sapere in una stanza dov'e' il nord, qual e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.

Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.
L'inevitabile complicarsi di tutto


Combatto
l'indispensabile battaglia per difendere il mondo
col contributo della carta
che getto nel cestino;

e perdo poiché,
sfrecciando ad altissima velocità col pornoscooter,
danneggio l'ozono
in maniera irreparabilmente accidentale.

Perdo
quando confondo l'ambiguità di un'amicizia femminile
E smarrito
Me ne innamoro subito.

Arrendendomi, perdo
Di fronte all'inconfutabile fatto
Che per ogni opinione espressa
Ve ne sia una di opposta ed egualmente sostenibile;

sistematica incoerenza dei popoli,
sin dalla notte dei tempi
in cui gli uomini si riunirono assieme
ed uno decise che avrebbe dovuto regnare.

E perdo, cercando il senso di questa realtà fittizia
che circonda tutto l'universo
in una molteplicità di colori e idee,
scatenando panico in ognuno;

perdiamo, noi tutti,
nel non afferrare
che potremmo lasciarci spontaneamente andare
di fronte a quest'inevitabile complicarsi di tutto.

(Emiliano Pasqualin, "Era un malinconico modo di vivere", Libreria Editrice Sottomondo)

mercoledì, gennaio 11, 2006

Are you decent?




Mundson: Gilda, are you decent?

Gilda: Me? (She gives a long, sensual look at Johnny, and pulls up one side of her strapless dress) Sure, I'm decent.


Gilda, 1946

giovedì, gennaio 05, 2006


IL FULMINE DELLA VERITA'
...Non riesco a pensare ai ciechi senza ricordare una frase di Benjamin Peret:
"Non e'forse vero che la mortadella e' fabbricata da ciechi?"
Per me questa affermazione, in forma interrogativa, e' vera quanto il Vangelo.
Certo, qualcuno potrebbe trovare assurdo il rapporto tra i ciechi e la mortadella. Per me e' l'esempio magico di una frase assolutamente irrazionale, improvvisamente e misteriosamente colpita dal fulmine della verita'...
(Luis Bunuel)

Esserci e basta non basta

mercoledì, gennaio 04, 2006


La controra è uno stato della mente che appartiene ai popoli dell'area mediterranea e in genere ai popoli “latini”. In Messico la chiamano la siesta, ma detto così potrebbe sembrare riduttivo. Il gran caldo dell’estate porta un senso di spossatezza, soprattutto dopo il pranzo, che, per alcuni, si traduce in sonnolenza, per altri, invece, è una specie di torpore del corpo che si combatte restando immobili e cercando una quiete interiore. La controra, è quella parte della giornata che va dalle 14.30-15.00 fino alle 17.00 circa, in cui la città, poco prima caotica, colorata, rumorosa cade in una specie di letargo momentaneo, una specie di apnea di suoni, rumori, movimenti e diventa una città deserta. E' il momento in cui le lancette cominciano la parabola discendente. C'è soltanto il sole, il cicalìo tipico dei giorni caldi e rari rumori di pentole che qualche donna sta sistemando in cucina. Alle cinque della sera tutto riprende con frenetico caos. Questo ritmo strano, tipico delle cittadine del sud, segna una frontiera temporale tra la mattina e la sera. La controra è uno stato mentale, più che corporeo, tipico della gente di campagna, che accompagna lo spirito quando, subito dopo il pranzo, si cerca riparo dall’arsura delle prime ore pomeridiane, ci si ferma ad ascoltare i rumori di sottofondo o a sonnecchiare senza trovare pace, vinti da un’inspiegabile fiacca. Questa sorta di siesta dell’anima, e anche un po’ del corpo, fiaccato dal lavoro mattutino, risveglia i ricordi, le immagini ed i suoni.
La controra è il coprifuoco. Ti insegnano a rispettarla quando sei ancora bambino, e violarla equivale a commettere un fatto illecito. La controra è sacra, intoccabile, sublime.

martedì, gennaio 03, 2006

RESEARCH


Tanti auguri, Paolo

Da anni quest’uomo vive nel mio ufficio, al giornale, ed e’ con lui che discuto nei momenti di sconforto. Mi accompagna in macchina. Sta con me sulla spiaggia, in palestra, e soprattutto quando sto per addormentarmi a letto, l'ultima parola è la sua. Quest'uomo canta per me tutti i giorni, sussura, mi seduce e mi incanta. Questo uomo mi fa sognare, mais oui. Ogni giorno.
Non si stanca mai. Non mi stanca mai. Che bello, ascoltarlo.
Il 6, tra tre giorni, è il suo compleanno. Il mio regalo lo faccio attraverso questo blog: lunga, lunga vita, Paolo...vale la pena di stare al mondo per sentire la tua voce, per intuire quello che dici...

la tangerina


Albero di Giuda ( Cercis siliquastrum )
I fiori, di un gradevole sapore piccante, si possono aggiungere alle insalate o friggere in pastella; i boccioli si prestano ad essere conservati in salamoia o sotto aceto, come capperi. Aggiunti a fine cottura al risotto alla parmigiana aggiungono sapore e nuovo colore.

Albero di Giuda
E' una pianta originaria del Mediterraneo orientale e che si è poi diffusa anche sulle coste dell'Europa meridionale. Tutto può evocare tranne immagini tristi e tragiche; e invece lo si è voluto chiamare albero di Giuda favoleggiando che vi si sia impiccato l'apostolo traditore. Si attribuiscono i suoi tronchi contorti a quell'episodio, mentre i fiori rappresenterebbero le lacrime di Cristo e il loro colore la vergogna per la perfidia di Giuda. E' probabile che questa fama sia nata da un equivoco: il nome deriverebbe da "albero della Giudea" perché nell'attuale territorio dello Stato d'Israele è molto comune.
Altri alberi hanno condiviso il triste privilegio di essere stati prescelti dal suicida: la rosa canina i cui semi in Germania sono chiamati "bacche di Giuda"; il fico selvatico che sarebbe il discendente dell'albero a cui si impiccò Giuda e che da allora non riesce a portare a maturazione i suoi frutti; il carrubo selvatico che i siciliani chiamano "arvulu di Giuda" o "arvulu di Giudeo".


Storia

Definito come "l'abbraccio camminato", "sentimento triste che si balla", "rappresentazione della comunicazione tra i sessi", il tango nasce verso la metà dell'800, quando la popolazione argentina incontra gli immigrati, uomini di diverse nazionalità (non solo europei); ma è anche incontro tra la gente del porto e quella delle campagne. Appare all'improvviso come una sorta di linguaggio comune della gente di Buenos Aires e di Montevideo, quello permeato di usi e di leggi dei vicoli di periferia, quello dei locali malfamati, dove si beve, si canta, si litiga, ci si sfida a duello e dove, soprattutto, si balla. E allora tanghi di odio e di rancore, tanghi di amore e di gelosia, tanghi di periferia e di malavita. Da qui, quella che è la storia di un popolo si fonde con la storia personale, spesso intrisa di sofferenza e tristezza per le cose perdute o la patria lontana, e che trova inizialmente espressione in una forma di poesia popolare accompagnata dal suono delle chitarre. A questa si unisce il ballo, la habanera, danza spagnola diffusasi a Cuba e importata dai marinai, che si diffonde ma immediatamente si trasforma, assumendo l'andamento caratteristico e insolito di una camminata in cui l'uomo avanza e la donna indietreggia. Nasce così la milonga, mentre dal porto di Buenos Aires arriva anche il candombe, danza caratteristica degli immigrati neri. Sono queste le danze che si fondono nel tango. Nella prima decade del '900 il tango si espande per tutto il mondo; la sua musica inizialmente viene scritta in 2/4 ed il ritmo è abbastanza veloce mentre successivamente è scritta in 4/4. Man mano che prende piede l'abitudine di aggiungere il testo alla musica, il ritmo viene rallentato. A partire dal 1917 si diffonde il tango cantato. In quell'anno, Carlos Gardel presenta in un teatro di Buenos Aires il brano "Mi noche triste" e il successo è strepitoso. Da questo periodo cominciano ad aprirsi, per i signori dell'alta borghesia, locali ove è possibile assistere a spettacoli, ballare e naturalmente trovare compagnia. Qui però il Tango subisce una rapida trasformazione: il ritmo veloce e l'antico girare sono sostituiti da calmi passi scivolati ed un ritmo più lento.

Danza

Il tango è un ballo totalmente libero, improvvisato, privo di coreografie predefinite. Non esiste tango simile ad un altro, e questo grazie alla sua capacità di reinventarsi e di mostrare ogni volta un nuovo aspetto di sé. La "salida", ad esempio, è solo una combinazione di passi che si utilizza per imparare a ballare, mentre le figure classiche (ocho adelante, ocho atràs, mordida, parada, etc.) vengono continuamente assemblate, sospese, frammentate e ricombinate, in un'unica figura che non si ripeterà mai uguale. Inoltre la varietà delle melodie e la diversità degli stili interpretativi generano condizioni emotive sempre nuove ed uno stile quindi mutevole. Ma il tango non è la sola danza rioplatense: i tangueros sono soliti alternarlo alla milonga (caratterizzata da un tempo molto più veloce di quello del tango, dal ritmo semplice e dalla struttura delle figure meno articolata) e al vals criollo (basato sul ritmo del valzer viennese, ma i cui movimenti sono quasi gli stessi del tango). Attualmente va diffondendosi il cosiddetto "tango nuevo", una danza che rivisita il tango argentino aggiungendo elasticità, flessibilità e nuovi giochi di contrapposizione dei pesi conferendo maggior volume e raffinatezza.

Musica

In origine il tango è sola musica per accompagnare la danza in un trio di flauto, arpa (poi chitarra) e violino. Gli strumenti sono trasportabili, adatti sia a feste che a ritrovi di strada o di cortile. I musicisti suonano ad orecchio e spesso improvvisano, ed è per questo che le arie del primo periodo, non trascritte, sono in gran parte perdute. Successivamente il flauto viene sostituito dal "bandoneòn", (strumento a mantice simile alla fisarmonica inventato ad Amburgo, dove non ebbe molta fortuna, nel 1835 da H. Band), portato nel Rio della Plata da qualche immigrato. Poi abbandona le tonalità giocose, per assumere un carattere più profondo e sentimentale. La sofferenza, la solitudine, l'abbandono, diventano temi cari al tango-canzone, espressione dei sentimenti più reconditi dell'intimo umano. A partire dal 1900, quando il tango comincia a entrare nei teatri e nei caffè, si impone il trio bandoneòn-violino-pianoforte. Cominciano così a dedicarsi al tango strumentisti e direttori sempre più colti musicalmente, quasi sempre italiani: Francisco Canaro, Juan D'Arienzo, Carlos Di Sarli, Osvaldo Pugliese, fino ad arrivare ad Astor Piazzola che, attraverso il "tango nuevo", ha elevato "una musica di bassa estrazione" a genere musicale colto fondendo il tradizionale, il popolare con il raffinato: fra jazz e musica contemporanea.

È un legame fisico che può essere imparato più o meno velocemente. Questo legame richiede una struttura solida come l’abbraccio aperto o avvicinato; eseguito con le braccia, le mani e il petto che divengono importanti elementi per questo contatto o legame tra i due corpi. C’è una consapevolezza di uno nell’altro e dell’ equilibrio del peso corporeo; questi elementi sono basilari, ed è difficile ballare finché essi non sono perfettamente compresi.


Il legame comincia fissandosi ed accettando l’invito al ballo con un cenno di testa, continua durante la camminata per avvicinarsi sufficientemente per poter stabilire un contatto fisico. Si attende qualche attimo ascoltando la musica e si cerca un’intesa per muoversi fra le altre coppie. L’uomo offre la sua mano sinistra in modo che lei possa appoggiarvi la sua e l’abbraccio viene proposto ed accettato; quindi la concentrazione di uno sull’altro viene trasmesso attraverso i loro corpi.



Lui sente la musica e propone qualche passo, lei è attenta per seguirlo. I corpi e le anime stanno comunicando, non esiste nessun’altra preoccupazione o pensiero: loro, la musica e la danza. Esiste una consapevolezza del battito del cuore, della respirazione, del piacere, del rilassamento o della tensione. La musica ha il suo inizio, la sua parte intermedia, i suoi “adagios” (movimenti lenti), le sue accelerazioni, poi la preparazione alla fine e poi la conclusione. Tutti e due i ballerini girano sul pavimento al unisono, e sono in contatto con tutti gli altri ballerini. La musica si ferma, loro mantengono per pochi istanti l’abbraccio e poi si separano.



IL TANGO, UN ABRAZO

La musica del valzer, come è noto, si basa sulla ripetizione del ritmo: un intero brano musicale si balla sull'1_2_3 dei giri a destra e a sinistra e sull'1-2-3 dei passi cambio. Anche il valzer delle origini aveva questa caratteristica, recepita da balli popolari di ritmo ternario. Il tango, al contrario, mutuava dall'habanera la sincope, utilizzata per rompere il ritmo, e dalla milonga l'azione di marcia a contatto permanente col pavimento. Inoltre il tango operava una sintesi fra due cose che sembravano inconciliabili: la coppia chiusa e le figure che costituivano i programmi delle danze di corte (quadriglia e contraddanza). Ciò creava le premesse per un ballo completamente diverso da tutti quelli precedenti: un ballo dove la coppia, intesa come unione-contrapposizione di maschio e femmina, poteva muoversi a piacimento su un programma articolato in figure variabili dal punto di vista della composizione, della durata, del numero di passi, delle pause. Al tempo in cui le donne avevano l'obbligo di portare abiti lunghi, le ballerine di tango introdussero nella danza le gonne corte fin sopra al ginocchio: non per provocare i rappresentanti dell'altro sesso, si diceva, ma per le esigenze specifiche di quel tipo di ballo. Chiaramente, questa cosa non fu percepita positivamente dalle classi dominanti. Il tango, pur essendo nato dall'anima popolare, e pur essendo in sintonia col comune sentire delle popolazioni rioplatensi, fu all'inizio compresso all'interno dei ghetti sociali e culturali.Ebbe successo, prima che nella borghesia e nella parte colta della società, tra i frequentatori di bordelli e nei locali dei bassifondi cittadini.

La novità fondamentale della coreografia del tango consisteva nell'aver sostituito quello che Carlos Vega chiama il "movimento continuo" dei balli di coppia allora dominanti con la "sospensione dello spostamento". Nel tango il maschio decideva all'improvviso di fermarsi e di guidare e/o assecondare, da fermo, i movimenti della dama davanti e attorno a lui. La sospensione del movimento era chiamata corte. Dice Elisabetta Muraca che "il tango argentino si balla con cortes y quebradas, vale a dire con continui arresti della marcia e torsioni del busto, componendo un insieme armonico e sensuale, frutto di creatività e intesa fra i ballerini."(Elisabetta Muraca, "Il Tango. Sentimento e Filosofia di Vita"). Il termine corte è sparito nel tango della disciplina STANDARD, ma è rimasto in vita nel nostro BALLO DA SALA nelle figure MEDIO CORTE e MEDIO CORTE GIRATO. La funzione del corte era duplice: consentiva al cavaliere, da un lato di evitare gli scontri sulla pista con altre coppie, dall'altro di gestire le performances della dama e le sue performances con la dama, allungando a piacimento le pause, anche ben oltre il tempo imposto dalla musica. Attraverso la libertà di interpretazione del ritmo, con figure inventate al momento e diversificate per cavaliere e dama, si introduceva la distinzione dei ruoli all'interno della coppia. Per cui, mentre nel valzer i ballerini eseguivano (ed eseguono) gli stessi giri e gli stessi passi di cambio, a momenti alterni, nel tango ognuno dei due partners finiva per avere un suo programma personalizzato. Ecco perchè gli studiosi hanno definito il valzer un ballo egualitario e il tango come la danza della differenziazione sessuale. Nella sospensione (corte) il cavaliere faceva da perno alla dama che continuava a muoversi, e talvolta da punto di appoggio, per figure acrobatiche tipicamente femminili. Il compito della dama era molto importante: non solo doveva saper seguire i comandi e la guida del cavaliere che inventava amalgamazioni; ma doveva ella stessa saper improvvisare, a cavaliere fermo, una serie di figure di abbellimento. Nella fase matura del tango, la stessa utilizzazione di figure conosciute, codificate o trasmesse nella prassi, avveniva al di fuori di ogni schema, nella massima libertà di esecuzione, di variabili e di sequenze. Una figura di base era sottoposta a decine e decine di personalizzazioni. Se c'è un ballo che come regola numero uno ha messo l'improvvisazione, questo è il tango delle origini. Ma attenzione: si parla di improvvisazione con un preciso retroterra tecnico.


A proposito del tango delle origini, leggiamo Meri Lao: "Il tango è una danza libera, vale a dire, non risponde a una coreografia fissa. Gli manca il 'passo base' regolare e uniforme, come potrebbe essere il passo a dondolo del tango europeo. Gli manca il 'passo di cambio' per sostare e rilassarsi in attesa di passare a prestazioni più impegnative: qui la concentrazione e l'impegno sono costanti, anche da fermi... Siccome l'andamento delle altre coppie non risponde ad alcun ordine prestabilito, chi conduce deve tenerle d'occhio sia per non scontrarsi con loro, sia per profittare dello spazio rimasto libero e comporre la sua sequenza dei passi." (MERI Lao, "T come Tango", Roma). La scrittrice sottolinea la particolare funzione del passo indietro del cavaliere: si tratta di un unico passo "come passo di servizio per poter cambiare posizione". "Una caratteristica importantissima rende diverso il tango dalle altre danze: i ballerini invadono lo spazio del proprio partner, gli bloccano o gli spingono un piede, lo sgambettano, lo costringono a intrecciare le gambe o ad aprirle. Inoltre, senza sciogliersi del tutto dall'abbraccio, possono trovarsi a eseguire isolatamente delle figure, spaiati, in un continuo attirarsi e respingersi. Oppure restare fermi mentre l'altro è al massimo della mobilità... Le coppie del tango ballano concentrati sulla propria esecuzione. Percorso originale fatto di accelerazioni, come le immagini di un film viste a passo veloce, che di colpo si arrestano; procedere incidentato da scissioni e svolte subitanee, andamento 'por cortes y quebradas', cioè per tagli e torsioni, per pause e mutamenti di direzione, per fermate improvvise e riprese inaspettate". (MERI Lao, "T come Tango").

Naturalmente la europeizzazione del tango ne ha trasformato o azzerato alcune caratteristiche forti. I maestri francesi, lo considerarono un prodotto esotico alla pari di tanti altri: come tale lo elaborarono (lo francesizzarono), negli anni 1908-1911, e lo esportarono in tutta Europa. L'elemento della improvvisazione, che era il marchio rioplatense di fabbrica, fu sostanzialmente abolito attraverso la codificazione di una ventina di figure. Fra gli anni Venti e Trenta, per esigenze connesse alle competizioni, si lavorò alla standardizzazione del tango francesizzato: ciò lo allontanò definitivamente dallo spirito originario. Cosicchè oggi abbiamo un tango internazionale che è uno dei cinque balli appartenenti alle danze standard e che ha seguito un cammino di allontanamento dal tango rioplatense e argentino.

Il tango diventerà danza olimpica nel 2008 (?), portandosi appresso le regole e le convenzioni stabilite dalla IDSF. In Italia abbiamo anche un tango nazionale, definito da sala, parimenti 'addomesticato' e con un suo programma, diverso da quello del tango standard. Infine c'è il tango argentino, che è diventato disciplina autonoma, riconosciuta dalle Associazioni dei Maestri di Ballo. Esso è il più vicino al tango rioplatense delle origini, riproponendone lo stile, alcune figure caratteristiche, il gioco degli intrecci delle gambe. Pur avendo una sua tecnica d'esecuzione precisamente codificata, il tango argentino assegna al cavaliere dei margini di improvvisazione che ne fanno una danza relativamente libera. Le stesse regole fissate per la presa e per la posizione non hanno la rigidità degli altri balli. Se proprio di regole si vuole parlare, bisogna dire che esse conservano dei margini di elasticità...

L'abbraccio stretto dei ballerini nel tango ha fatto molto discutere i teorici della danza e i moralisti di vari paesi. Vale la pena, a tale proposito, far parlare uno dei più grandi studiosi di tango: Carlos Vega. Nello spiegare i problemi tecnici di questa danza e il rapporto fra la coppia e il traffico sulla pista, Carlos Vega spiega che l'alternativa era stretta per i ballerini: o si camminavano sui piedi o si abbracciavano. "Hanno scelto di abbracciarsi", afferma l'Autore, e conclude categoricamente che non c'è "nessuna lussuria in questa stretta" (Carlos Vega,"El origen de las danzas folkloricas, Buenos Aires"). La bellezza del tango è nata anche da questa necessità esclusivamente tecnica dei partners di stare avvinghiati...
(da www.superballo.it)

IL CORNO

Il corno portafortuna è, senza dubbio, il più diffuso amuleto italiano. Le sue origini sono antichissime e risalgono addirittura ai tempi del Neolitico (3500 A.C.), quando gli abitanti delle capanne usavano apporre fuori dall' uscio un corno come auspicio di fertilità.

Specialmente in quei tempi la fertilità veniva associata alla fortuna in quanto, più un popolo era fertile, più era potente e quindi fortunato. In altri tempi i corni venivano usati come doni votivi alla Dea Iside, affinché la Dea Madre assistesse gli animali nel procreare. La mitologia ci informa che Giove donò alla sua nutrice un corno in segno di gratitudine, questo corno era dotato di virtù magiche in modo che, la nutrice, potesse ottenere tutto ciò che desiderava. Il corno trae le sue origini per via della forma, si pensa infatti che gli oggetti a punta, specialmente se aventi forma di corno, difendono da cattive influenze e malasorte se portati con se. Si dice che il corno per portare fortuna deve essere ROSSO e FATTO A MANO.
Rosso perché già nel Medioevo ogni talismano rosso aveva doppia efficacia e il rosso simboleggiava la vittoria sui nemici. Già nei tempi più antichi diverse popolazioni associavano al colore rosso un significato di fortuna e buon auspicio. In Cina e Germania dove tutti gli editti ed i sigilli imperiali erano rossi in segno di buona fortuna. Nelle Indie dove i raccolti venivano protetti con teloni rigorosamente rossi e strisce di tela dello stesso colore venivano portate sul collo per prevenire i mali. Gli antichi medici suggerivano che abiti rossi potessero guarire i reumatismi dove ogni mezzo aveva fallito. L'efficacia di tutti questi rimedi ed altri ancora non stanno nei vari materiali utilizzati ma , solo ed esclusivamente, nel colore rosso. Il motivo per il quale il corno deve essere fatto a mano sta invece nel fatto che ogni talismano fatto a mano acquisisce poteri benefici dalle mani che lo producono.
Emblematico antidoto e sacramentale scudo contro ogni malefico influsso, il corno è il referente apotropaico per antonomasia: amuleto propiziatorio, autentico simbolo della vita, da opporre a tutto ciò che viene ritenuto potenziale latore di morte. Apotropaios è parola greca che significa letteralmente "allontanante" da cui deriva l’italiano apotropaico, cioè di oggetto, gesto, parola o similia, che serve ad allontanare un’influenza magica, ritenuta maligna e/o dannosa per chi la riceve. E’ inutile ricordare che a Napoli, l’oggetto apotropaico, nella sua varia forma e configurazione, ha assunto nel tempo un rilievo culturale non secondario e la sua diffusione assicura una presa popolare non disprezzabile, compresa quella quota non trascurabile di kitch e di "già visto" e consumato. Prototipo dei talismani, considerato essenziale medicus invidiae, il corno per adiempiere validamente alla sua funzione scaramentica non deve mai venire acquistato, ma solo formare oggetto di dono, e risultare: tuosto, vacante, stuorto e cu' 'a ponta (apparire rigido, cavo all'interno, a forma sinusoidale e terminante a punta).



IL GOBBO
La sagoma di un gobbo ricorda qualcuno che è curvo sotto il peso di qualcosa. Nel passato questo peso è stato associato alla ricchezza ed alla fecondità. Nell'antichità dove tradizionalmente venivano rifiutati dalla società uomini con malformazioni, un individuo con la gobba doveva presentare attributi tali da portare benefici, per evitare l'esclusione. Le società antiche dipendevano dalla fertilità (sia umana che animale) e veneravano gli uomini con la gobba che sembravano incarnare la fertilità. Così quella forma che sembrava una maledizione venne esorcizzata in una figura mitica, portatrice delle ricchezze contenute nella sua gobba e nella potenza del suo fallo.

IL DEFORME
La deformità nel presepe assume carattere di curiosità che, come nel ‘700, allieta cinicamente, il divertimento di chi guarda. Lo "scartellatiello", e' un soggetto tipicamente legato alla superstizione. La sua gobba, i suoi cornicelli e ferri di cavallo diffondono la fortuna e scacciano il malaugurio.

LO STORPIO
Per quanto la fantasia si diletti nella creazione di questi personaggi, va detto che gli storpi erano frequenti nel passato: errori della natura considerati “segnati da Dio” per la loro supposta malvagità.

IL NANO
Annoverabile tra i grotteschi, è un personaggio che nella scena suscita attenzione e curiosità. Lo si interpreta anche come Gnomo, con riferimento alle saghe popolari che lo vogliono impenetrabile, testardo e diffidente, occasionalmente gentile e generoso. A Napoli è considerato pari al famoso “scartellatiello” (gobbo) portafortuna.

IL GUERCIO
Le malattie degli occhi venivano spesso combattute con pratiche religiose (benedizione degli occhi,offerte di occhi votivi) o con l’aspersione degli occhi in fonti o sorgenti sacre. Il guercio che mostra la sua storpiatura è tra i personaggi grotteschi più apprezzati.

IL LEBBROSO
A testimoniare le frequenti pestilenze dell’antichità,il lebbroso è un soggetto simbolo dell’uomo che soffre sulla terra povertà e malattia, ma che,richiamando la figura di Lazzaro,verrà poi risarcito nell’Aldilà.

lunedì, gennaio 02, 2006

Ma non desiderare che io sia allo stesso tempo Vadinho e Teodoro, perchè non posso. Posso soltanto essere Vadinho, e non ho che amore da darti, tutte le altre cose delle quali hai bisogno, è lui a dartele: la casa di proprietà, la fedeltà coniugale, il rispetto, l'ordine, la considerazione, la sicurezza. E' lui a dartele, perchè il suo amore è fatto di queste cose nobile (e scoccianti) e tu hai bisogno di tutte queste cose per essere felice. Ma anche del mio amore hai bisogno per essere felice, di questo amore d'impurità, sballato e alla rovescia, impudico e ardente, che ti fa soffrire. Un amore così grande che resiste oltre la mia vita disastrosa, così grande che, dopo di non essere, sono tornato a esistere, e sono qua. Per darti gioia, sofferenza e godimento, sono qua. Ma non per restarti accanto, essere la tua compagnia, il tuo premuroso marito, per conservarti la tua fedeltà, per accompagnarti in visita, al cinema nel giorno fissato, al letto all'ora precisa - per questo no, amore mio. Questo è compito del mio nobile collega di letto, e migliore di lui non ne troverai un altro. Io sono il marito della povera dona Flor, colui che viene a risvegliare la tua ansia, a mordere il tuo desiderio, nascosti nel fondo del tuo essere, dietro al tuo ritegno. Lui è il marito della signora dona Flor, e si occupa della tua virtù, del tuo onore, del tuo rispetto umano. Lui è il tuo volto mattutino, io sono la tua notte, l'amante di fronte al quale non hai nè possibilità di fuga, nè forza. Siamo i tuoi due mariti, i tuoi due volti, il tuo sì e la tua negazione...
(Jorge Amado)

TODAY (oggi)

Woke up, put on clothes, went to work.

Voglia di un viaggio
voglia di un paese lontano
voglia di sentire parole che non conosci
e facce mai viste
voglia di altrove.

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